Poemi Premiati 2019 XXXI Edizione

Prima Poesia classificata
    Balachanda
di Colombo Conti

Ti seguo da ore
lungo la spiaggia del sale, tra tremule onde.
Dalla luce lunare emergono gli spiaggiati, tronchi contorti
modellati dal vento
che sibila e invoca il tuo nome.
Balachanda!
Attendi il mio sguardo,fermati al mio desinare
tra teli al vento e rugginose porte.
Voglio accarezzare le tue mani venose
ringiovanirle con boccioli di carezze.
Merletti di nuvole piangono al tuo cospetto.
È nostalgia ancestrale nel limbo di pensieri reconditi.
Luci fatue danzano sul mare
sono stelle ondulanti,effimere che giocano a riprodursi.
Mi sporco di sabbia
son vivo in questo luogo segreto
dove un dì provai ad amare.

Motivazione critica
Balachanda di Colombo Conti è poesia ricca di immagini che consentono l’affioramento di un tema cogente: il desiderio, innanzitutto quello primigenio, archetipico, ovvero il Dasein heidegeriano, quell’esser-ci nel mondo, come parte viva, cercante il senso dell’esistere, della propria dimensione autentica.Un merito della lirica consiste infatti nel tentativo di restituire attraverso figure retoriche delicatissime quali “boccioli di carezze”, “Merletti di nuvole”, la bellezza della presenza dell’essere al cospetto della natura, dell’altro, in cui si afferma la cura quale via di salvazione. Pertanto si giunge nel finale ad un approdo che coniuga cielo e terra, il lontano e il vicino; da una parte “Luci fatue danzano sul mare/ sono stelle ondulanti,/ effimere che giocano/ a riprodursi”, dall’altra, in una speciale sintonia, predittiva del varco salvifico possibile nel mare magno dell’esistenza, si porge la risposta dell’Io-lirico, proprio nei versi finali:“Mi sporco di sabbia/ son vivo in questo luogo segreto/ dove un dì provai ad amare”. In questa protensione, tra l’alto e l’umano, tra aspirazione all’infinito e realizzazione terrena, troviamo forse il segreto suggerito nei versi: la via verso la prossimità, una vivida “corrispondenza d’amorosi sensi”. Il presidente della giuria Andrea Giuseppe Graziano.

Seconda Poesia classificata
   Sogno di sabbia
di Maria Grazia Vasta

Ti sogno, ma sei solo un ricordo,
amante dolce dagli occhi profondi,
come un lontano tremulo miraggio
nella aria calda di una nuova estate.
Lieve il tuo sorriso dalle morbide labbra
apre lo sguardo mio straniato,
luce nascosta di puro diamante.
E’ un dono inatteso, penso stupita,
con lui vivrò in un possibile domani
e una lacrima iridescente
sulla gota pallida lentamente cade
e la gioia imprevista mi toglie il fiato.
Ti sogno, in un pomeriggio di sole,
che mi accarezzi piano, con timide dita,
àncora ferma alla mia solitaria deriva,
mentre le ritmiche onde la mente cullano.
Mi sveglio di colpo sull’arenile deserto,
nessun rollìo di barca in rada,
nessun gabbiano volteggiante
nel cristallo terso del cielo,
nessun umano all’orizzonte infinito,
mentre la sabbia d’ambra ricopre
d’un velo sottile il mio corpo inerte
come delfino spiaggiato privo di vita.
Se tu ci fossi mi prenderesti la mano
abbandonata al mio fianco scarno
per sollevarmi dalla duttile tomba
di minuscoli indefessi grani,
prima che i marosi inesorabili d’autunno
dalla mutevole riva mi portino via.

Motivazione critica
Un canto dell’amore di lontano, in consonanza con la lirica dei Poeti Provenzali delle origini è la poesia di Maria Grazia Vasta. I versi disvelano la condizione profonda dell’anima spersa, prosciugata,stigmatizzata già nel metaforico titolo “Sogno di sabbia”; è nell’immagine della sabbia che ricopre il corpo inerte “come delfino spiaggiato privo di vita”, che si porge il fil rouge tematico dell’aridità, nella correlazione delle immagini d’un sogno che lascia balenare l’assenza dell’amato, la quale diviene nella melanconica, finanche disperata necessità, la morte dell’anima.
Risulta fortemente significativo il linguaggio al negativo che l’autrice utilizza nell’anafora: “nessun
rollìo di barca in rada,/ nessun gabbiano volteggiante/ nel cristallo terso del cielo,/ nessun umano
all’orizzonte infinito”, giacché è in tale dimensione che si rimarca l’impossibilità dell’agognata comunione e dunque, proprio da qui, si staglia la flebile invocazione d’aiuto come possibilità remota, ipotetica, lontanissima: “Se tu ci fossi mi prenderesti la mano/ abbandonata al mio fianco scarno”. Ma
nessuno può sollevare dalla “duttile tomba”. Sovviene il secondo finale del “Dialogo della Natura e
di un Islandese” di Leopardi, nel quale -chiuso il dibattimento- l’uomo è sommerso da una tempesta
di sabbia, a significare la pervicace indifferenza per le sorti dell’uomo da parte di una Natura matrigna, ingannatrice, la quale non avendo posto alcun fine all’esistenza non può avere a cuore la felicità degli esseri.
Il presidente della giuria Andrea Giuseppe Graziano



Terza Poesia classificata
   Sguardi all'orizzonte
di Lorella Borgiani

Passaggi di vento nella sera
turbano ogni quiete,
silenzio in frantumi,
occhi alla deriva…
anime in attesa del loro trionfo
s’agitano malmenando paure.
Avrei voluto amarti,
senza celare il mio dolore
addormentarmi nel sole
camminando di pari passo al cielo
e tra i cavalloni del mondo,
tuffare ancora sguardi all’orizzonte.
Tra braccia generose d’amore
ambisce d’esistere il sorriso
tessendo promesse infinite,
consumando dolori e memorie
che m’abitano dentro come il mare.
Risvolti salini d’imprecabili onde,
dal suono che si erge profondo
e declina nell’oblio
di questo essere viva
e segreta di gioia, largita all’amore.
Fluttuando in chiare acque,
ti alzerai ancora… emerito giorno,
per cantare vittoria e consacrarmi di bene.
Ho sete di esistere, di raccogliere
carezze all’imbrunire,
consolarmi sulla tua sponda,
di unirmi a te,
meraviglia di vita.

Motivazione critica
È fulgore di rinascita la lirica di Lorella Borgiani, “Sguardi all’orizzonte”, carica della forza degli inizi,
della ricerca, del cambiamento. Mentre nella prima parte “anime in attesa del loro trionfo/ s’agitano
malmenando paure”, nella corsa, nella forsennata ricerca di affermazione, rivolte alla praxis, al qui
ed ora, all’inganno del reale de “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di chi crede/
che la realtà sia quella che si vede” -come scrive Montale in “Ho sceso dandoti il braccio almeno un
milione di scale”- nella seconda parte l’autrice perviene ad una nuova consapevolezza, dunque ad
un nuovo stato esistenziale: “[…] essere viva/ e segreta di gioia, largita all’amore”.
Pertanto si fa strada nel finale, senza retorica, ma piuttosto come una voce che scaturisce salubre
e sublime dall’interno, dopo aver sperimentato, vissuto e poi scelto, una nuova cosmogonia, antiegotica:
“Ho sete di esistere, di raccogliere/ carezze all’imbrunire, / […] di unirmi a te,/ meraviglia di
vita”.
Il presidente della giuria Andrea Giuseppe Graziano



Quarta Poesia classificata
    Perdizione
di Alessandro Conti

Risacca marina
nell’immortalato ricordo
che ho di te.
Va e viene
la presunta e gaia risata
che preme il tuo volto
al confine col passato.
Non ho mai alimentato
la meschina indole
degl’occhi tuoi.
Ho sempre contrastato.
Ma nessuno ha mai compreso.
Vicino, fra la schiuma delle onde
annega la nostalgia
e fraudolenta, l’irrazionale memoria
emerge dalle acque profane
del mare perduto.
Verità che si proietta
su scogli rocciosi
granulosi e biechi
radenti
come le tue menzogne.

Motivazione critica
“Perdizione” di Alessandro Conti mutua il combattimento del mare con le rocce, in direzione del
senso metafisico della verità che, talvolta, si schianta “su scogli rocciosi/ granulosi e biechi”.
I versi asciutti e dinamici, sono protesi a evidenziare i contrasti, anzi il contrasto tout court, allorché
è in ballo il vero, il giusto, il bello, che s’infrangono contro i durissimi schermi, quegli infingimenti
acuminati, scagliosi, taglienti -dice il poeta nel finale- “come le tue menzogne”
Il presidente della giuria Andrea Giuseppe Graziano


Quinta Poesia classificata
    La Burrasca
di Marco Nica

Sul rostro di pietra bagnato
s’infrangevano gocce di mare
mentre tu silente guardavi
la livida burrasca avanzare.
Un quadro di natura agitata
echeggiava nel continuo fragore
fra spruzzi di onde bizzarre
che lasciavano addosso l’odore.
L’acuto garrito dei gabbiani
come canto di fine stagione
tracciava malinconici solchi
nei pensieri senza copione.
Ti cinsi d’un lieve tepore
per incontrar le tue mani
e d’incanto all’animo inquieto
sembrò più dolce il domani.

Motivazione critica
La lirica di Marco Nica “La burrasca” gode di un impianto fondato su rime ed assonanze, risultando
musicale e squisitamente fluida. Persino l’acuto verso dei gabbiani che tracciano in aria “malinconici
solchi” è volto a far gustare l’immagine del suono, che ha funzione epifanica, giacché riecheggia
“come canto di fine stagione”, dello spegnersi ed esaurirsi delle cose, in definitiva della finitudine.
Nel componimento, proprio dalle risonanze emergono i significati, giacché il poeta si lascia condurre
dal ritmo interno del fanciullo-musico il quale, oltre a cantare l’esistere e il suo male, espresso dalle
immagini della “livida burrasca” che fanno riecheggiare i versi de “Il Lampo” di Pascoli (“E cielo e
terra si mostrò qual era:/ la terra ansante, livida, in sussulto;/ il cielo ingombro, tragico, disfatto”), qui
anela eroicamente al futuro, in una prospettiva di bellezza. Tale coesione fono-simbolica si può scorgere
in modo eminente nel finale: “Ti cinsi d’un lieve tepore/ per incontrar le tue mani/ e d’incanto all’animo
inquieto/ sembrò più dolce il domani”.
Il presidente della giuria Andrea Giuseppe Graziano



Pagina Facebook, cliccare qui.        

Post popolari in questo blog

Poesie Premiate 2020, con motivazioni critiche

Poeti anno 2023

Premiate XXXIV edizione anno 2022