Poesie Premiate XXXVI edizione

 

L’effimera giovinezza   Roberto Croce

Scintillano le creste

coronate di spuma

mentre l’onde s’adagiano

sull’oscuro letto di rena

e nel barbaglio dei riflessi

di un vivido chiarore

sotto la luna

un ricordo avvampa

e riluce d’argento

dentro lacrime di gioia

che annullano anche il tempo.

C’era il futuro scritto

su questa sabbia

mentre i sogni

seguivano il profilo

delle tue labbra

dal sapore di mare,

quando ogni tempesta

placava la sua rabbia

dentro la leggera brezza

di un tempo d’estate

nei giorni infiniti

dell’effimera giovinezza,

dove neanche il sole

osava tramontare.

I colori dell’idillio poetico di Roberto Croce, fluttuano dalle brillanti creste di spuma al chiarore argenteo della Luna, per offrire ai sensi del lettore, nel modo più diretto e consonante, le ragioni della presenza viva del ricordo di una luminosa estate. I sogni seguivano il profilo delle tue labbra dal sapore di mare: l’incanto accade, la tempesta placa la rabbia che si discioglie in una brezza leggera, soave, riconciliante. Sono i giorni di luce, dell’effimera giovinezza, accolta e donata, vissuta e ancora viva come memoriale; è possibilità aperta, se persino il sole, nella visione dell’io-lirico, non osa tramontare. Andrea Giuseppe Graziano


DI VOCE SOLA   Carmelo Salvaggio

Ti scopro oggi

vestito di nebbia e silenzio.

Pallido il sole,

evanescente si confonde

nel fluttuare di cangianti colori

mentre senza sosta

batte il mio cuore.

Voce antica, impetuosa

di perenne energia,

il tuo andirivieni è culla di sogni

e sparsi ricordi.

Va la mia vela

solcando questa bonaccia

nella ricerca dei tanti momenti

vissuti e consegnati

alla tua vastità.

Mare che mi muovi dentro

frangendo alla mia riva ogni onda,

non sia che i relitti

in te dispersi

gridino l’eco di voci

di martiri naufraghi

sopraffatti dal tuo abbraccio letale.


Capita spesso che anch’io mi perda

pur cercando di mostrare sicurezza

e capita che miseri, s’immergano

dentro l’amplesso dei tuoi flutti,

i miei pensieri e la mia voce sola.

I versi della poesia “Di voce sola” di Carmelo Salvaggio fluiscono dal mondo interiore dell’autore alla pagina bianca attraverso costrutti leggeri e semplici: il sole è pallido, evanescente, il mare della vita solcato dalla vela dell’esistenza è sopraffatto dalla vastità. È il luogo dove perdersi il mare, in un estatico fluire, per ritrovarsi in un abbraccio d’acque che lascia emergere pensieri e profondere la voce sola.   Andrea Giuseppe Graziano


LA LUNGA ESTATE

Me la ricordo bene quell’estate,

la lunga estate del Sessantanove:

quattordici anni, il mare, le cicale,

l’estate dello sbarco sulla luna

del grande passo per l’umanità.

Ricordo molto bene quell’estate.

Mia madre, la veranda, le telline

corri Paoletto e porta un po’ di mare”

e il mare stava lì, a una sassata…

correvo a perdifiato sulla sabbia

coi miei secchielli sulla sabbia scura

rovente come il ferro degli etruschi.

Ricordo tutto ancora molto bene:

mio padre sonnecchiava in canottiera

mia madre che spurgava le telline

il pane contadino, i pomodori,

l’odore della resina in pineta,

lo scrocchio d’aghi secchi sotto i passi.

Niente è rimasto della lunga estate

eppure nell’autunno dei miei anni

se chiudo gli occhi ancora la rivedo

(è un attimo fratelli, solo un attimo)

ancora la rivedo quell’estate

la lunga estate del Sessantanove

l’estate che mostrò ciò che più vale:

mia madre, la veranda, le telline,

il mare… e quel frinire di cicale.

Una poesia musicale fluida, con un ritmo giocato sugli accenti tonici della tradizione lirica italiana, una poesia cantabile, quella di Paolo Emilio Urbanetti, che ci offre uno spaccato popolare e fiabesco, restituendoci la purezza e l’innocenza dello sguardo fanciullo sul mondo e quella vibrazione dolce del sentimento di protezione vissuto in una famiglia popolare e autentica.  La vivezza delle immagini sospinge nella lettura offrendo un focus diafano di rara bellezza, in cui amore, amicizia, prossimità, linguaggio semplice ed alto insieme, fanno corona alla riviviscenza di ciò che più vale.  Andrea Giuseppe Graziano

Echi d’onde

Ricordo il mare dei giorni passati,

quando la tua forza sfiorava le tempeste.

Onde che un tempo si infrangevano audaci,

ora si posano lievi sulla riva dell’anima,

portando echi di memorie nostalgiche.

Ti vedo guardare l’orizzonte lontano,

forse in cerca di tempi

che il vento ha disperso.

La tua debolezza mi commuove

e si palesa come una preziosa conchiglia.

Mamma, ora che il tempo ti lambisce soave,

scorgo il mare nei tuoi occhi farsi placido

e nel tuo essere così sensibile,

sei la mia ancora, il mio rifugio sicuro.

Smarrita, in questa marea oscura,

ti stringo forte sperando di placare

il vortice senza fondo

che minaccia di inghiottire il tuo sorriso stanco.

Nella tua fragilità trovo il coraggio

che non ha voce e nelle tue lacrime silenziose,

il riflesso di un Amore Eterno.

Nella lirica “Echi d’onde” di Maria Laura Veschi si dona una fulgida immagine del tempo: alle alte e impetuose onde giovanili seguono le onde lievi della maturità: onde che si posano lievi sulla riva dell’anima. È il mare magno della consapevolezza, dell’accettazione; qui l’elemento acquatico offre l’accesso al tema del sentimento del tempo, la forza dell’anima giovane d’un tempo e la levità della maturità presente confluiscono nella forza che si fa accogliente e si volge all’affetto più caro, quello materno che si apre all’Eterno. Andrea Giuseppe Graziano

In questo avverso Mare.

Tace,

attento e silenzioso.

Assorto ad ascoltare i più remoti segreti e i dolori nascosti.

La Schiuma,

lenta ed impacciata,

tenta invano di purificare le antiche angosce che,

accompagnate dalla sinuosa corrente,

illudono,

ritraendosi per qualche secondo

e poi, disinvolte, tornano,

ancor più pungenti.

E, come scaglie taglienti di guscio di conchiglia,

insensibili,

feriscono i piedi nudi che cercano sollievo tra la sabbia bagnata,

fredda nemica.

Nettuno, con mendaci sorrisi e ingannevoli sussurri, induce ad immergermi.

Resisto.

Non c'è conforto in queste ostili acque.

Non c'è riparo tra gli oscuri fondali.

Ed io,

rassegnata all'amara sconfitta,

mi abbandono in questo avverso Mare.

“Tace” è il verbo che principia la poesia di Veronica Campoli, nel quale si dà una meditata e solida intenzione, quella di suggerire con forza al lettore, oltre che al personaggio della scena, l’accordo con il musicale silenzio, come ne “la pioggia nel pineto” di D’Annunzio. “Taci” e dunque “ascolta” il mondo della spiaggia, ché potrebbe purificare dalle angosce antiche, ché dovrebbe salvare dal nulla. Ma quel mare presenta sulla battigia insidiosi nemici scagliosi e pungenti, segno del travaglio dell’esistenza. E l’anima non può riconciliarsi col mondo, né con se stessa. Si dipanano traslati poetici di pregevole elaborazione. La natura qui significa altro e, come nelle poesie del primo Montale, ridona il suono della dimensione esistenziale del male di vivere.  Andrea Giuseppe Graziano


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